Sicilia bedda

26 dicembre 2023

In morte del mio amico Mimmo

La vigilia di Natale, poco prima delle undici del mattino, il mio amico Domenico Presti (Mimmo) e io ci siamo scambiati gli auguri di Natale. Quattro ore dopo qualcuno della sua famiglia ha inviato a tutti i numeri della sua rubrica telefonica la notizia della sua morte.
Non ho parole capaci di esprimere il dolore che ho provato e provo: era, è per me il mio fratello maggiore, da più di quarant'anni. Ho pensato di ricordarlo ripubblicando una articolo che scrissi nel 2019 su lui, la sua Sicilia e sulla straordinaria capacità di rispettoso confronto che fu la cifra della nostra amicizia.
Pochi mesi fa, in agosto, mi scriveva: "un abbraccio a te e Sandra, che spero di rivedere in questa bella Sicilia"... Non è accaduto, problemi di salute importanti nella mia famiglia si sono frapposti, ma appena sarà possibile andrò a salutarlo.

29 ottobre 2019

Quasi quarant'anni fa, all'inizio degli ani '80, fui commissario per gli Esami di Maturità in una scuola di Lucca, e nel mio albergo alloggiava una coppia di colleghi siciliani (di Acireale per la precisione), con i quali si instaurò ben presto un rapporto di simpatia cordiale fra chiacchieroni curiosi.

Questo rapporto ebbe una felice impennata quando, un fine settimana, vennero a trovarli i loro figli carichi di ogni ben di Dio… ed io ebbi la fortuna di essere invitato alla cena che avevano organizzato, con la collaborazione dell'albergatore per la preparazione dei cibi nella cucina del ristorante. Fu una serata memorabile (anche in senso letterale, se ne ho memoria così viva a tanti anni di distanza), un po' per la simpatia di quella famiglia riunita, per la cultura di questi colleghi, per la maestria con la quale Mimmo innestava la sua robusta sicilianità su una padronanza sicura e vasta del sapere umanistico, e un po' per i cibi che andavano dal vino e dall'olio di famiglia al pesce spada che "il giorno prima nuotava ancora"… serata memorabile, dicevo, di quelle che diventano pietre miliari della memoria. Negli anni successivi ci si rivide, alcune estati passammo le vacanze da loro: soprattutto per i bambini era meraviglioso poter godere la bellezza di una città come Acireale, la quiete e la frescura di una casetta sulle pendici dell'Etna, con un po' di terreno intorno su cui prosperavano frutta e ortaggi (l'olio e il vino gustati a Lucca venivano di lì, ma c'erano anche limoni e agrumi vari, pere, fichi, fichi d'India, ortaggi fra cui la cucuzza longa che non avevo mai visto), le escursioni fra le meraviglie di quella che per noi è l'Etna ma per loro è "a Muntagna", un mare bellissimo a pochi chilometri, tremila anni di civiltà ricordati da innumerevoli testimonianze, una compagnia (un parentado solidale, amici…) sempre affabile aperta e generosa: e qui debbo rendere l'ennesima testimonianza della ospitalità di quella terra e di quella gente, e dire ora, come dicevo allora, che da noi (qui dalle nostre parti, da noi polentoni) non ne siamo capaci, non ne siamo più capaci.

a cucuzza longa

Poi piano piano i contatti si sono affievoliti: così è la vita, ci si perde un po' di vista anche se da qualche parte si resta legati a un patrimonio di esperienze condivise, anche se quando ci si telefona si gonfia il cuore e vien voglia di correr là e abbracciarli. E spesso non lo si fa, mentre pian piano i ricordi, pur belli, si allontanano… invece stavolta l'ho fatto, ho preso l'aereo e sono andato a Catania, e di là ad Acireale. Ne è valsa la pena, hanno organizzato una serata con figli (che conoscevo) e nipoti (che non conoscevo) ed è stato dolce riannodare e annodare legami preziosi con tre generazioni di tanto care persone.


È capitato, in quell'occasione, che la figlia dei miei amici mi mostrasse sul telefono alcuni lavori della sua figlia maggiore, che studia alla Scuola del Fumetto di Palermo, e che mostrandone uno mi dicesse che era un compito assegnato da uno dei professori dopo la lettura di alcuni passi del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov… allora è Azazello! dissi io, aggiungendo che mi piaceva molto. Poco dopo l'amabile autrice veniva a sedersi accanto a me, e abbiamo fatto conoscenza partendo da lì e dal piacere che le aveva dato il fatto che qualcuno collegasse il suo disegno a ciò che lo aveva ispirato. E qualche settimana dopo è arrivata una busta nella quale la tavola originale di Azazello, che avevo visto sul piccolo schermo del telefono, mi veniva inviata in dono con parole gentili. Ecco da dove viene l'immagine che apre l'articolo Perché Parresie): l'autrice si chiama Anna Volcan.

Ma c'è dell'altro. Perché quando ci conoscemmo erano passati da poco i tempi in cui in certe città del Nord non si affittava a meridionali, e le differenze fra gli abitanti delle varie regioni erano più elementi di contrapposizione che ricchezze di una cultura antica composita e variegata: a me e ai miei colleghi siciliani sembrò bello e interessante confrontarci e affratellarci anche sulla base delle differenze, ma non era sempre così, non è sempre così, e parlavamo con amarezza delle campagne di aggressività e disprezzo antimeridionale condotte da certe parti politiche.

I ratti, come tutti sappiamo, sono animali straordinari per la loro capacità di adattamento, la loro prolificità e la loro intelligenza, e sono i signori incontrastati delle fogne di tutto il mondo. Sono anche estremamente sociali, nel senso che si uniscono in gruppi numerosi molto organizzati e con forte spirito di appartenenza. Anni fa un gruppo di etologi fece una sperimentazione sui ratti di fogna: ne catturò un certo numero e li fece vivere per alcune settimane in gabbia, poi li rilasciò nel luogo in cui erano stati catturati per studiare come sarebbe avvenuto il rientro. Ma non ci fu nessun rientro, nel senso che i prigionieri liberati si accostarono con manifestazioni di gioia ai loro simili ma da questi furono annusati e inesorabilmente uccisi come estranei invasori: non avevano più l'odore della comunità, erano extracomunitari, si direbbe oggi.

Nel 1992 (l'annus horribilis delle stragi di mafia in cui furono assassinati Falcone e Borsellino) il mio amico, scrivendomi dopo un periodo insolitamente lungo di silenzio fra noi, mi confidava, fra il serio e il faceto, di aver avuto timore che in qualche modo la nuova onda di rancore antimeridionale si fosse frapposta fra noi: e questo rende idea di quanto profonde e diffuse siano le radici dolorose della nostra ferocia, come si intreccino con il nostro bisogno di legami solidali fino a confondersi con loro, quando odiare chi non appartiene al nostro gruppo è vissuto come atto d'amore verso il gruppo a cui apparteniamo. Anche se poi a definire il gruppo e il senso di appartenenza concorrono, per noi umani, elementi ben più complessi dell'odore, che è un dato oggettivo, misurabile e indiscutibile, valido sempre e dovunque per loro ratti. Per noi l'appartenenza a un gruppo è definita da fattori non naturali ma acquisiti, culturali, in continua trasformazione e instabili: se, per fare un esempio clamoroso, si fa una legge in base alla quale gli ebrei appartengono a una razza inferiore, e se le condizioni sociali economiche e politiche premono in quella direzione, ecco che gli ebrei diventano per molte persone il bersaglio di aggressività e rivalse invereconde, catalizzando e amplificando animosità e pregiudizi sotterranei fino a farli diventare prevalenti. Questo meccanismo convoglia le spinte distruttive suscitate dai conflitti nei momenti di crisi e rinforza la coesione sociale: svolge quindi una importante funzione politica, per questo la persecuzione di minoranze interne e la guerra contro un nemico esterno sono strumenti maneggiati con cinica disinvoltura nella gestione del potere.

È terribilmente vero che il nostro essere animali sociali ci spinge ad organizzarci in gruppi MA al tempo stesso scatena aggressività furiose: nei gruppi, come del resto nei rapporti interpersonali e perfino nel rapporto con se stessi, le radici del nostro sentire, e le spinte ad agire che ne derivano, sfuggono in gran parte alla nostra consapevolezza, e per questo è così difficile parlare dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. Oggi in Italia il pregiudizio dei settentrionali nei confronti dei meridionali è certo meno forte di allora, ma non credo che si possa dire che i meridionali si siano adattati alle attese e pretese dei settentrionali, né che i settentrionali intolleranti si siano molto ammorbiditi. Verosimilmente la crisi economica che stiamo attraversando e il problema delle migrazioni hanno spostato la questione su un altro piano, ora il bersaglio non sono più i meridionali: polentoni e terroni… uniti sì, ma contro gli extracomunitari. Una divertente e arguta argomentazione in proposito ci è proposta in un libro del 2003 che io trovai e trovo bellissimo, Il mite migrante di Francesco Tripodi (siciliano, guarda caso, salito al nord: è lui il mite migrante).

Si fa un gran parlare, in questi ultimi tempi, di extracomunitari, di manifestazioni razziste per la loro espulsione, di ronde padane per il controllo del territorio e così via.
Vuole sapere che ne penso? Beh, io sono felice che siano arrivati tutti questi magrebini, albanesi, senegalesi e polacchi. Felicissimo. Perché adesso sono loro ad aver occupato l'ultimo gradino in fondo alla scala sociale, mentre noi emigrati meridionali siamo stati promossi al penultimo. È una vera pacchia! Ora sono i marocchini a vendere la droga, e non più i calabresi. Sono gli algerini a taccheggiare sugli autobus, invece dei pugliesi. E i mafiosi? Macché siciliani, ora sono tutti kosovari. E anche le puttane sui viali, mi creda, sono tutte albanesi e nigeriane, e non c'è più una napoletana manco a pagarla.
Ora sono loro a buttare le cartacce per terra, seguiti dagli sguardi di disprezzo di noi emigrati di lungo corso, che per queste cazzate siamo diventati più intolleranti dei padani. L'Italia unita l'avranno fatta pure i carbonari e i garibaldini, ma a unire davvero gli italiani del Nord e del Sud è stato, finalmente, solo il razzismo verso gli immigrati.Perfino io, certe volte, guardo infastidito i giovani olivastri che ai semafori vogliono a tutti i costi lavarmi il parabrezza. Eppure, 25 anni fa, anche io giravo per Bologna con un secchio pieno d'acqua e un raschietto. Pulivo i vetri di alcuni negozi del centro.
Ma una cosa credo d'averla capita: ciò che scatena il razzismo è soprattutto la povertà. Una volta, un famosissimo pugile nero, intervistato da un giornalista che gli chiedeva come viveva lui il razzismo dei bianchi, rispose: «È vero, il razzismo è tremendo. Anch'io l'ho provato sulla mia pelle, tanto tempo fa, quando ero giovane, povero e negro».
Anche gli abitanti del mio palazzo, un tempo molto freddini, ora mi salutano più cordialmente, da quando è arrivata una famiglia di filippini che sputa sulle scale e frigge pesci in continuazione, impestando l'aria comune. Adesso i nemici sono loro. Che bellezza! Ma non potevano venire prima?

E c'è dell'altro ancora, molto importante. Ben presto, nelle nostre conversazioni a Lucca, ci eravamo confrontati (soprattutto Mimmo e io) su temi politici in maniera aperta e senza censure, e le nostre scelte di fondo erano antitetiche: Mimmo era decisamente schierato a destra (fu anche senatore del Movimento Sociale Italiano, come parlamentare fu segretario della 7ª Commissione permanente (Istruzione pubblica, Beni culturali) , io ero decisamente schierato a sinistra, In questi decenni abbiamo spesso parlato di politica e non mi sono mai sentito poco rispettato o considerato nemico anziché avversario. Sono certo che lui possa dire lo stesso di me.

Nonostante la passione con la quale ognuno di noi sosteneva (e tuttora sostiene) le proprie opzioni ideali e culturali, le consideravamo (e tuttora le consideriamo) opzioni, cioè scelte possibili all'interno della condivisione di principi sui quali si fonda la possibilità di vivere nella stessa comunità umana. Per intenderci, si può essere religiosi o atei, liberali o anarchici, monarchici o repubblicani… ma consideriamo la nostra costituzione e le nostre leggi come cornici all'interno delle quali agire nella società condivisa.
In questa prospettiva la democrazia consiste proprio nel riconoscere dignità alle diverse opzioni e, pur con tutti i suoi limiti, è il metodo con il quale il nostro popolo ha scelto di decidere che cosa fare e come, laddove si debbano prendere decisioni e formulare regole che riguardino la comunità. In una logica di continua trasformazione, perché se le decisioni prese non risultano efficaci possono essere cambiate: la maggioranza decide ciò che si deve o può fare in un determinato momento, non ciò che è vero buono e giusto… e questo comporta la necessità di limiti su ciò che si può e non si può fare: per questo la Costituzione pone in premessa alcuni Principi fondamentali. In caso contrario…

Magari tu hai una brillante cultura e un QI alto, ma il resto di noi dice che dobbiamo saltare TUTTI in questa lava. Avanti!

Già Benjamin Franklin, riflettendo sui limiti strutturali della democrazia, osservava che essa non può ridursi a due lupi e una pecora che votano su che cosa si mangia a cena, e affermava l'importanza della libertà… la quale secondo lui era ben rappresentata da una pecora ben armata.

Ovviamente le cose si complicano quando si approfondiscono sul piano teorico e quando si prova ad applicarle nella pratica, proprio perché la realtà è sfaccettata e in continua trasformazione: non avevo allora, né ho ora, la soluzione dei problemi della convivenza umana… per questo coltivo con piacere le relazioni nelle quali sento e sperimento possibile cercare insieme proprio partendo dalle differenze. Riprendendo l'esempio dei topi, mi piace incontrare chi ha odore diverso dal mio anche a costo di scoprire fetori intollerabili: che appunto magari non tollererò. perché poi non credo di avere gusti così facili.

Post Scriptum, a proposito di destra e sinistra e di come spesso se ne parli e sparli senza cognizione di causa.

Ho lasciato l'insegnamento da trentasei anni, tuttavia con alcuni degli alunni di un tempo (più che alcuni, a dire il vero) ho conservato rapporti di cordiale frequentazione, che in qualche caso si è trasformata in amicizia fraterna. Alcuni anni fa, a cena a casa mia, c'era uno di questi miei alunni (ora affermato professionista) il quale, quando la conversazione toccò temi politici, mi contestò di essere sempre stato "troppo di sinistra". Gli chiesi che cosa intendesse con l'espressione "di sinistra" e, dopo un po' che tergiversava, mi incuriosì il vederlo stare a capo chino, come a guardare il tovagliolo sulle ginocchia… ahimè, ahilui, stava cercando la risposta sul telefonino.

Immagini tratte da:
blog.giallozafferano.it/ortaggichepassionebysara/
nationalgeographic.it/
wumo.com


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