Cercando di capire
La vita è un dono... e dunque di chi è?
Se l'intero genere umano, tranne uno, fosse di una stessa opinione e quell'uno fosse ridotto al silenzio, il genere umano non sarebbe giustificato più di quanto lo sarebbe quell'uno se, potendo, riducesse al silenzio l'intero genere umano. (John Stuart Mill)
Il 15 febbraio 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum, proposto dall'Associazione Luca Coscioni, volto a depenalizzare il reato di "omicidio del consenziente".La Corte si era già espressa sull'urgenza di interventi legislativi in materia, ma il parlamento continua a eludere quello che sarebbe doveroso adempimento della sua funzione principale, legiferare. E questo è già considerato un successo per chi non vuole che nuove visioni del mondo e delle relazioni fra le persone turbino consuetudini che vengono considerate "naturali" e immodificabili solo perché inveterate. Se di fronte a questa inerzia si cerca di mettere in campo lo strumento del referendum abrogativo, di nuovo la Corte costituzionale interviene per coprire il vuoto legislativo e la latitanza del Parlamento: infatti, c'è da osservare, la Corte non si è pronunciata sull'eutanasia, bensì ha valutato inammissibile che l'eventuale abrogazione di una parte dell'articolo 579 del codice penale ("Omicidio del consenziente") producesse un vuoto legislativo a detrimento della tutela dei soggetti più deboli. Credo importante precisarlo, perché decidere se sia opportuno introdurre nel nostro ordinamento giuridico eutanasia e suicidio assistito spetta SOLO al potere legislativo: il quale ha il potere di fare e modificare le leggi (perfino la Costituzione), mentre la Corte costituzionale ha il compito di decidere dei conflitti fra leggi ordinarie e Costituzione.
Qualcuno ha portato argomenti forti per valutare la decisione della Corte come atto politico volto a mantenere in vigore le attuali norme sull'omicidio del consenziente, come Paolo Flores d'Arcais, direttore di Micromega: "La Corte costituzionale ha deciso di sottrarre ai cittadini il referendum sull'eutanasia. Ha trovato il pelo nell'uovo, per dirla con il suo presidente, Giuliano Amato. Ha vinto il potere clericale, che alle urne avrebbe subito una sconfitta ciclopica, molto oltre quelle storiche su divorzio e aborto, a definitiva conferma che la società italiana è ormai secolarizzata, anche se (quasi) tutti i gangli del potere sono ancora in mano a cattolici." Sull'altro versante sembra che molti (soprattutto nel pur variegato mondo cattolico) si riconoscano nelle parole con cui la senatrice Binetti ha accolto "con estrema soddisfazione" la pronuncia della Consulta: "È passata la nostra linea: sulla vita non si vota". E durante la raccolta delle firme così si era espresso Massimo Gandolfini, neurochirurgo e leader del Family Day: "Eutanasia e suicidio assistito sono segno di un imbarbarimento culturale indegno di una società che vuole dirsi civile.(...) Farsi carico di tutte le fragilità, comprese quelle di chi è sopraffatto dalla sofferenza, dalla solitudine, dall'emarginazione e vorrebbe farla finita (perché la scelta per la morte non è mai una vera, consapevole e libera decisione) è l'unica strada civile da percorrere. Eutanasia e suicidio assistito sono la pietra tombale della medicina ippocratica, nella quale ho creduto e voglio continuare a credere e servire".Del resto basta andare indietro di pochi anni per ricordare l'opposizione di queste frange (molto numerose e agguerrite) contro il testamento biologico (all'epoca dell'approvazione della legge l'allora ministro Lorenzin promise che avrebbe garantito la possibilità dell'obiezione di coscienza), contro il possibile rifiuto dell'accanimento terapeutico, persino contro le terapie del dolore...
Ma il problema di fondo non è questo o quello specifico, il problema è se in uno stato laico (che cioè non consente trattamenti privilegiati ad alcun credo religioso) sia ammissibile che una norma fondata soprattutto su principi religiosi possa essere imposta a chi tali principi non condivide (Costituzione, art. 3). La libertà di disporre del proprio corpo e della propria vita è difficile da definire, e certo semplifica le cose ridurla a schemi facili e dogmatici, come i suggestivi motti "la vita è un dono", "la vita non appartiene a noi ma a Dio", "sulla vita non si vota"... La storia e l'antropologia culturale sembrano fornire molti argomenti a chi sostiene visioni diverse rispetto alla disponibilità della vita: sono temi complessi e delicati, ma certo è suggestiva l'esigenza di non semplificare la difesa della vita riducendola in termini che rischiano di apparire, in maniera inquietante, puramente biologici, e di riportarne la disponibilità al soggetto cosciente e capace di valutarne la qualità.
In questo mio sito ho pubblicato un articolo su Conflitti fra le persone, conflitti nelle persone: si può leggerlo cliccando qui. Nell'articolo, fra le altre cose, sottolineo come nella gestione dei conflitti siano inevitabili le scelte, e osservo che nei conflitti fra le persone le scelte possono comportare obblighi anche per chi non è d'accordo: è qui che si applica la metafora del "siamo nella stessa barca". La storia è proprio il racconto della laboriosa ricerca di strumenti capaci di produrre attuare e mantenere scelte che appaiano capaci di promuovere il "bene comune"... è la politica, insomma, parola che deriva dal greco Polis, città. Gli elementi fondanti di una comunità sono in certa misura variabili nel tempo e nei luoghi, sicché per alcune comunità è fondante la lingua (stati nazionali) mentre non lo è per per altri (Svizzera, Belgio), di solito lo è il territorio (ma non per i popoli nomadi, senza parlare degli Ebrei che sono rimasti popolo nonostante secoli di diaspora). La religione è stata elemento fondante di comunità statuali per millenni, e spesso lo è ancora, ma il modello di stato che si è affermato in Occidente dopo le guerre di religione e la Rivoluzione francese è sostanzialmente laico.
Nella nostra società secolarizzata la religione non è più elemento identitario fondante: agli allarmi di chi proclama che "se Dio non ci fosse tutto sarebbe permesso", da secoli anche nei paesi di tradizione cristiana si cerca di opporre una morale valida etsi deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. Il concetto di religione di stato è ormai sostanzialmente estraneo alla nostra cultura, la Costituzione è esplicita sulla libertà religiosa, sembra quindi sostenibile anche la posizione di chi rivendica la possibilità di una "libera uscita" dalla vita quando essa sia giunta al suo compimento (che non necessariamente coincide con l'evento biologico della morte) o non venga più giudicata degna di essere vissuta. Libera Uscita, appunto, è il nome di una associazione che da anni si è battuta e si batte su questi temi, e proprio sul sito di Libera Uscita ho scritto negli anni alcuni articoli su questi temi (vedi qui, qui, qui e qui), e concludo con una autocitazione:
Ma forse il tema della laicità dello stato può esser trattato in modo più liberale, rivendicando a ogni opzione culturale ed etica piena autonomia e pari dignità. E allora il problema non sarebbe più quello di auspicare che i cattolici accolgano in quanto cattolici opzioni sulla disponibilità o indisponibilità della vita, ma che finalmente accedano a un più rispettoso riconoscimento delle diverse prospettive spirituali, inclusi l'agnosticismo e l'ateismo. Non è questione di tolleranza, parola ambigua che presuppone il potere di non tollerare, ma di libertà individuali. La nostra storia di italiani ed europei ci ha portato con fatica ad una concezione laica dello stato, nel senso che dovrebbe esser condivisa la pratica di una completa libertà di religione come è definita nella nostra Costituzione e in tutte le costituzioni moderne.
La vera questione si può riassumere tornando alla metafora della barca: non siamo nella stessa barca rispetto ad una possibile via di libera uscita dalla vita, è in discussione la praticabilità di un diritto costituzionale. Libertà di religione è espressione che merita qualche sforzo di chiarimento, almeno rispetto alla differenza fra la libertà di credere e la libertà di praticare la propria fede: la Costituzione infatti garantisce la libertà religiosa, ma bisogna chiarire se garantisce la possibilità di aderire ad una fede o la possibilità di vivere secondo i principi di tale fede. Sul piano normativo il problema è di grande rilievo, poiché la confusione del piano della fede con quello normativo produce la tendenza a sovrapporre il concetto di peccato a quello di reato (vedi l'esempio estremo dei regimi teocratici), e allora le opzioni di fede non sono più fonte di diritti per chi le condivide ma diventano fonti di obblighi anche per chi non le condivide. So di semplificare in maniera forse rozza, ma in un regime laico la fede (nel senso delle varie possibili fedi) deve essere riconosciuta come fonte di proposte per tutti (e dunque liberamente ricevibili) e non come il fondamento di obblighi per tutti (e dunque sanzionabili). Qui, tra l'altro, emerge una grande confusione rispetto al concetto stesso di democrazia: infatti mettere ai voti i diritti e le libertà fondamentali e il loro esercizio rischia di stabilire la sopraffazione della minoranza da parte della maggioranza, come nella forte frase di Mill.
(Marzo 2022)
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