Cercando di capire 

Ceci n'est pas une pipe: di simboli pensieri e cose 

L'usage de la parole (L'uso della parola) (René Magritte, 1928-29)

Questa non è una pipa, scrive Magritte in eleganti caratteri corsivi... ma se non è una pipa che cosa è? Per quanto ben rappresentata essa possa essere, resterà pur sempre l'immagine, cioè la rappresentazione, di una pipa... ma altri problemi si aprono se pensiamo che anche senza aver mai visto il quadro di Magritte, senza mai aver visto una immagine di pipa noi siamo in grado di immaginare e rappresentare una pipa, in infiniti modi ovvero in infinite pipe, e di riconoscere una pipa qualora ne vedessimo una: basta che abbiamo visto almeno una pipa... o forse anche una immagine di pipa basterebbe? Poniamo l'ipotesi che io non abbia mai visto pipe o immagini di pipe: se vedo il quadro di Magritte conosco un'immagine di pipa anche se c'è scritto, e in elegante corsivo, che non è una pipa? Ma certo, basta riflettere sul fatto che Magritte dipinge con tanta cura una immagine di pipa e ci provoca, con quella scritta, ad ammettere che la rappresentazione di un oggetto è certamente un oggetto anch'essa, ma non è l'oggetto che rappresenta anche se a tale oggetto rimanda più o meno efficacemente

In questo caso, poi, rimanda con inesorabile precisione, visto che Magritte conosce perfettamente le tecniche pittoriche e rappresenta la pipa con un realismo che definirei in un senso letterale archetipico: il dipinto richiama qualcosa che a quell'epoca tutti avrebbero riconosciuto NON come la semplice rappresentazione di una pipa ma addirittura come l'immagine della pipa.

Fino a qualche decennio fa nelle aule delle scuole elementari (immagino in tutta Europa) erano appese alle pareti immagini didattiche (c'erano anche negli abbecedari, ma appese al muro facevano ben altro effetto) che rappresentavano oggetti di cui si voleva enfatizzare la lettera iniziale: la D di Dado, la M di Mano, la P di Pipa. Erano proprio disegnate così, e più o meno con quei caratteri erano fatte le scritte: per un bambino quella pipa disegnata in modo così puntigliosamente elementare era più pipa di quella che magari fumava il nonno, era appunto LA pipa. Poi si diventa grandi, ma da qualche parte dentro di noi l'Inghilterra continua ad essere rosa come sulla carta geografica e la pipa è quell'immagine con scritto sotto in eleganti caratteri corsivi P p Pipa. Poi arriva questo Magritte, ti mette davanti la pipa guardando la quale hai imparato che cosa è una p e che cosa è una pipa... e con gli stessi bei caratteri corsivi ti scrive che non è una pipa!

Questo quadro mi ha molto colpito dai tempi del Liceo, perché io ho frequentato scuole elementari certo ancora molto simili a quelle che aveva frequentato lui, e Magritte mi ha dato la prima lezione di semiotica della mia vita. D'altra parte lui stesso dice chiaramente: "Chi oserebbe pretendere che l'immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa."

Si può ancora osservare che il soggetto è stato dipinto in varie versioni molto simili e con titoli diversi: il primo è del 1928-29 e ha per titolo L'usage de la parole, I (L'uso della parola, I); per altre versioni è stato usato il titolo La trahison des images (Il tradimento delle immagini).

In fondo è proprio così che van le cose nella vita di tutti i giorni: io guardo la foto di Anita che sto per incontrare e, quando la incontro, la riconosco perché già in qualche modo la conosco. Però riflettendo su questi temi bisogna avere delle cautele, tener conto dei poteri della nostra mente e dei loro limiti: di realtà pensiero e linguaggio (linguaggi) si parla da migliaia di anni, ma le cose non sono scontate e non si può semplificare senza rischiare di dire sciocchezze.

Dicevano gli scolastici medievali, riprendendo Aristotele, che le parole significano le cose con la mediazione dei concetti, cioè le parole sono simboli delle cose in quanto rappresentate nella mente. In altri termini la parola significa (è significante, cioè diventa segno di) un'immagine (significato) che è nella mente di coloro che parlano ed è in riferimento ad un oggetto reale, una cosa che dunque ne è il referente. In antico la parola simbolo voleva dire elemento di unione, dunque la parola è elemento di unione fra i pensieri e le cose della realtà: infatti ci permette di operare sulla realtà anche in assenza delle cose, di progettare, di comunicare e scambiare significati progetti pensieri ricordi, di fare disfare provare e rifare senza agire sulla realtà in modo irreversibile, cioè ci permette di operare con il pensiero. Quando abbiamo imparato a fare questo, da bambini, è stato per ognuno di noi un bel passo avanti arrivare a capire le battute su Pierino che per risolvere i problemini di aritmetica rompeva sei uova su dieci per sapere quante ne restavano: noi non ne avevamo più bisogno!

Senza contare, aggiungo, che la pipa che non è una pipa sta in un quadro largo quasi un metro e quindi è lunga almeno ottanta centimetri. Eppure mi permetterebbe lo stesso di riconoscere altre pipe anche di svariate fogge e materiali, proprio nello stesso modo in cui, quando l'ho incontrata, ho riconosciuto Anita dal manto scuro e dalla stella bianca che ha in fronte, e ho individuato nel maneggio altre puledre e puledri che non erano come Anita. Anche se l'avevo vista solo nel telefonino.

Anita, ovvero Ceci n'est pas une jument


Ho parlato della necessità di tener conto dei nostri limiti, e ho cercato di definire il nesso simbolico in cui si gioca la partita fra le parole, le immagini mentali delle cose (i si
gnificati, che sono dentro di noi) e le cose della realtà, i significati fuori di noi. Quando parlo dei poteri e dei limiti  della mente, a questo proposito, penso che la cavalla con la stella bianca in fronte potrebbe esser indicata in vari modi (l'ho chiamata jument per restare dentro il gioco di Magritte e scrivere Ceci n'est pas une jument, ma va bene dire in italiano cavalla o dirlo in qualsiasi altra lingua): fra i nostri poteri c'è quello di creare i linguaggi, e infatti al mondo ce ne sono parecchi.

Ricordo che da studente mi colpì molto la lettura di un testo di logica molto chiaro come spesso sanno essere gli autori anglosassoni (quello era americano, Irving Copi grazie ancora sessant'anni dopo!): fra i tanti esempi dei vari piani su cui si gioca il rapporto fra linguaggio pensiero e realtà, parlava della stessa pioggia vista da persone diverse e rappresentata presumibilmente con immagini mentali simili, che nel linguaggio (nei linguaggi) assumono forme diversissime: piove, it's raining, il pleut... E la cosa si fa sempre più complicata se pensiamo al rapporto fra parola scritta e parola parlata, e constatiamo che se scrivo pipa non solo ho prodotto un segno che rimanda all'immagine mentale di pipa e, attraverso essa, alla pipa concreta che posso fumare (era ora! ancora un po' e mi accendevo una sigaretta...), ma anche al suono della parola pipa, che di nuovo propone il tema di ceci n'est pas. Proviamo a dire pipa: l'effimero oggetto sonoro che produciamo non è un'immagine mentale di pipa ma ne è segno, simbolo, esattamente come la parola scritta. C'è ancora da osservare che fra la parola scritta e la parola detta c'è un rapporto speciale, perché se dico e scrivo pipa tutti (i parlanti italiano) non solo entrano nel gioco simbolo - immagine mentale - referente reale ma anche intendono la parola detta e la parola scritta come due concretizzazioni del simbolo significante. Se dico copiglia e lo scrivo tutti cogliamo il rapporto fra le due forme del simbolo, e se qualcuno non saprà che la copiglia è un pezzetto di metallo che impedisce a un dado di svitarsi... potremo spiegarglielo.

Un passo nella magia

Se dico o scrivo Sherlock Holmes, tutti sappiamo benissimo che cosa significa (di quale immagine mentale è il significante) e tutti conosciamo molte cose e storie di questo fantastico personaggio, che è proprio letteralmente fantastico perché esiste solo nelle nostre fantasie condivise e dunque non ha un referente nella realtà, anche se a Londra migliaia di persone vanno da cent'anni a visitare la sua casa accuratamente ricostruita, o meglio costruita.

Allo stesso modo migliaia di persone vengono a Modena per visitare la casa di Luciano Pavarotti, ora trasformata in museo. In realtà non è proprio allo stesso modo che si vanno a visitare queste due case, e nessun sagace detective si è seduto mai su quella poltrona di pelle nel salotto londinese, mentre qui ancora aleggia la voce del nostro tenore che sedeva a questo pianoforte.

Un altro passo nella magia

Abbiamo giocato prima con copiglia, parola ignota a molti ma pur sempre dotata di significato e di referente, poi con Sherlock Holmes, che ha certo una ricchezza di significato che copiglia neanche se la sogna, anche se poi non ha referente alcuno nella realtà delle cose. Ma facciamo l'ipotesi che uno scriva lonfo: che cosa significa, verrà da chiedersi? NON SIGNIFICA NIENTE! Non solo non ha un referente fra le cose del mondo reale, ma nemmeno rimanda a una sia pur debole immagine mentale, è completamente vuota: nemmeno gli unicorni (importante tribù del mondo immaginario) l'hanno mai vista. Eppure apre la possibilità di fare bei giochi intelligenti...

IL LONFO
Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s'archipatta.
È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t' alloppa, ti sbernecchia; e tu l'accazzi.
Fosco Maraini

Gigi Proietti evita con garbo di assumersi il ruolo di colui che spiega, ma la poesia metasemantica non è cosa lontana dall'esperienza comune: essa consiste nell'uso di parole senza significato ma con suono tale da risultare familiari all'interno di un testo, in cui sono inserite nel rispetto delle regole sintattiche e grammaticali della lingua di riferimento. Infatti la poesia Il lonfo, pur essendo del tutto incomprensibile, ci appare familiare, è indubbiamente in lingua italiana. E ci fa ridere, fa ridere il bambino che siamo stati, se abbiamo la fortuna di averlo ancora vivace dentro di noi. È tipico dei bambini inventare linguaggi, e solo nella relazione con gli altri essi giungono a mediare una lingua condivisa. Una mattina mio fratello, avrà avuto sei anni, si svegliò cantando "Ciupaco, ciliegite la musica del cuore..." (ricordo ancora la semplice melodia), senza porsi problemi su che cosa significasse; del resto se leggete nel modo giusto Il lonfo a un bambino o bambina di quattro o cinque anni, non batteranno ciglio. Un antecedente della poesia metasemantica di Maraini si trova in Lewis Carroll, che scrisse nel romanzo Dietro lo specchio una poesia nonsense, piena di parole inventate da lui, sul Jabberwock... un verso è Beware the Jabberwock, my son! (Guardati dal Jabberwock, figlio mio!) ma non si capisce proprio che cosa sia e che cosa faccia questo Jabberwock. Anni fa un amico inglese, quando gliela feci leggere (ho il romanzo con il testo inglese a fronte) rideva proprio come un bambino, il bambino che l'aveva letta quarant'anni prima. Nel film Amici miei si trova un bellissimo esempio di discorso metasemantico, accolto con tale favore da aver introdotto un fortunato neologismo nella lingua italiana.

Infatti il termine supercazzola è tuttora ben vivo: capita addirittura che Maurizio Ferraris, professore di Filosofia teoretica all'Università di Torino, lo usi nel titolo di un suo libro pubblicato recentemente dalla severa casa editrice il Mulino.

fonti delle immagini:
https://lifevoyagephotoblog.files.wordpress.com/
https://www.casamuseolucianopavarotti.it/wp-content/

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